
C’è sempre un motivo per cui veniamo a conoscenza di ciò che ancora non conosciamo. Fra le innumerevoli informazioni da cui ci lasciamo attraversare, senza concedere loro nemmeno un fremito, accade talvolta che una nuova parola irrompa in noi, che bussi alla nostra porta in modo del tutto inatteso, non sperato. Dice Cassiano Ricardo, nella sua poesia Il suonatore di clarinetto:
Ma quando sentirai, nell’oscurità,
la goccia cadere sul triste terreno,
lì, allora, sarò io
che batto
sulla pietra del tuo cuore.
Il poeta brasiliano, pressoché ignoto alle masse dei lettori italiani – tant’è che è rarissimo trovare online le traduzioni delle sue opere – è riuscito a scavare in me un sottile cunicolo, o forse a riaprire un’arteria già esistente e in parte sclerotizzata. Il caso gioca certamente un ruolo di prim’ordine in chi si dice alla continua ricerca del nuovo: in questa occasione ha preso le sembianze di una vecchia canzone, nella quale mi sono imbattuto soltanto di recente: Giovanni, Telegrafista di Enzo Jannacci. Dando per scontato che, chi non la conoscesse, abbia già riparato alla mancanza – della cui gravità si renderà conto solo dopo l’ascolto – passo a dire che la canzone è tratta proprio da una poesia di Ricardo, João o Telegrafista:
Giovanni telegrafista. Nulla più,
stazioncina povera
c’erano più alberi uccelli che persone.
Solo aveva il cuore urgente.
Anche senza nessuna promozione.
Battendo, battendo su un tasto
solo.
L’esistenza di João si riduce al martellare su un unico tasto, si consuma nell’esecuzione di quel gesto ripetitivo, e tuttavia mai uguale a se stesso. Gesto che non svilisce la portata della sua vita: al contrario, ne moltiplica le possibilità, annullandone i confini e proiettandola nel grande groviglio telegrafico, dischiudendogli le porte del mondo.
Nell’apparente angustia espressiva del telegramma, Giovanni trova un canale di comunicazione lucido, essenziale, lineare. Pur nella desolazione della sua cabina, egli si illude di partecipare ai grandi eventi del mondo, a guerre e ad amori che nel breve volgere del componimento diventano già Storia, mescolandosi alle vicende e agli affanni delle persone comuni, a storie simili alla sua.
Anzi, proprio alla sua.
I contorni della sua Alba perduta riemergono per un attimo dal convulso pigolìo telegrafico, ma solo per comunicargli di averla ulteriormente perduta: questa volta, irrimediabilmente. Il cuore del telegrafista è «urgente», esige priorità, immediatezza. Egli stesso non conosce la natura di questa urgenza, così dissimile dalle altre, gravi e grandiose, che è costretto a diramare. L’unica figura retorica di cui dispone è l’ellissi; urgente, il solo aggettivo.
Giovanni telegrafista
quello dal cuore urgente
non disse parola, solo tre rondini nere
(senza la minima intenzione simbolica)
si posarono sul singhiozzo telegrafico.
Un singhiozzo senza indirizzo - Alba - e urgente.
Rimane muto e senza indirizzo il telegramma più importante della sua vita, l’unico che lo riguardi davvero, un pianto ridotto anch’esso ad una sequenza martellante di segnali acustici. Ecco: il suo amore - e quindi la sua vita - viene obliterato, impallidisce di fronte al trambusto del mondo, alle cupe e impassibili ragioni della Storia.
Così, il personaggio di João si mescola col protagonista di un’altra lirica di Ricardo, Elegia per mia madre: “Sono un ramo secco/da cui due parole/gorgheggiano. Nulla più”