Ci sono molte persone, compreso chi scrive, che vorrebbero sapere tutto. Anzi, sapere tutto pur conservando il piacere della scoperta del nuovo. Essendo questo impossibile, esistono essenzialmente due soluzioni al problema.
Uno: convincersi di sapere già (quasi) tutto. Due: disperarsi, rassegnandosi all’impossibilità dell’impresa. Tre: insistere nell’imparare, rallegrandosi di riscoprirsi ogni giorno un po’ più ignoranti del giorno prima.
Ecco, i modi erano tre.
Come una stanza che si allarghi man mano che la percorriamo, l’ambito del conoscibile non si esaurisce, ma anzi si espande ogni volta che pensiamo di averne raggiunto i confini. Il suo labirinto conserva sempre anditi nascosti, vicoli, strade, gallerie. Come in un frattale, le sue coste divengono più frastagliate quanto più ci avviciniamo ad esse.
Quest’aspetto della conoscenza, l’essere sorgente inesauribile e perenne, se da una parte ne accresce il fascino, dall’altra costituisce una fonte di insidie, se non viene compreso a dovere. Facilissimo e comunissimo è convincersi di padroneggiare un argomento, se non un’intera disciplina, per il semplice motivo di aver conseguito un titolo, o per l’ancor più naturale sgomento che può coglierci di fronte all’infinito. Si può avvertire la necessità di costruirle, quelle pareti, per un puro bisogno d’ordine mentale.
Può essere frustrante essere costretti ad ammettere che, a dispetto di un numero indefinibile di anni di studi, esistono aspetti sui quali non abbiamo ancora ragionato a dovere, che qualcosa sfugge al campionario di spiegazioni che siamo in grado di fornire con le armi affilate della dottrina e della memoria. Forse, non incaponirsi e ammettere la propria ignoranza è la soluzione più pacifica per il proprio spirito, oltre che il modo più pulito per trarsi d’impaccio in certe circostanze.
A proposito di conoscenza, troppo limitante, e forse persino squallido, sarebbe ritenere che tutto possa essere alla portata di un sistematico esercizio del raziocinio. Si sente spesso parlare di bisogno di spiritualità e di soprannaturale, ed altrettanto spesso si sentono mettere in discussione le altrui forme di spiritualità, quelle più convenzionali o tradizionali, proprio perché ritenute inaccettabili sotto il profilo della ragione.
Per esempio, se non si crede nella possibilità della risurrezione, e tuttavia si utilizza la tesi della non-storicità di Gesù per negarla, si sta implicitamente ammettendo di non essere in grado di reperire argomenti logico-razionali in grado di confutarla. A questo punto, la questione diventa tautologica, dal momento che anche chi vi crede rinuncia a comprenderla con gli strumenti del pensiero razionale. Credere riflette una risoluzione dell’animo, non dell’intelletto. Ciò non vuol dire reputare inopportuno porsi domande ed indagare personalmente sul fondamento di ciò che ci è stato tramandato (molto spesso, è vero, in maniera del tutto acritica).
D’altronde, crediamo in molte più cose di quanto si possa pensare o saremmo pronti ad ammettere. C’è una religiosità che trascende la religione convenzionale, per quanto ciò possa apparire contraddittorio. Possiamo riporre gran parte delle nostre speranze di vita (in questo senso, “credere”) nel buon esito della nostra carriera, per esempio, o nel conforto di un gradevole bene di consumo o di un viaggio; oppure, nella seduzione dell’ostentazione di sé. Ancora, c’è la credenza incondizionata nel potere che avrebbero i nostri diplomi di certificare la nostra sapienza. Si potrebbe dire – e molti l’hanno fatto, da Pasolini a W. Benjamin – che abbiamo mutuato le forme cultuali tipiche delle religioni, trasferendole in oggetti formalmente privi di sacralità. Forse ci concediamo di venerarli proprio perché li sappiamo mondani, secolari, non gravati dall’ipoteca di dogmi e dottrine che qualcun altro ha affibbiato loro. Intrinsecamente passeggeri, non eterni. Alcuni oggetti o modi di essere sono stati universalmente elevati ad oggetti di culto (si dice cult, appunto), proprio in virtù della loro totale estraneità alla sfera religiosa.
La “presunzione di conoscenza” conferisce spesso un grande potere e un possibile vantaggio strategico in una contesa dialettica, a chi ne è provvisto. È uno schema che si ripete molto di frequente, per esempio nei dibattiti televisivi. Così, accade spesso di trovarsi nella posizione di non poter confutare delle affermazioni che si considerano quantomeno sospette – se non totalmente false – proprio perché non si può disporre immediatamente e con esattezza di quelle informazioni. Mentre, al contrario, chi si ha di fronte – in buona o in cattiva fede – potrebbe non avere remore a sciorinarle con solenne inesattezza.
Nel famoso racconto La biblioteca di Babele, Borges concepisce un Universo che consiste in una biblioteca strutturata a nido d’ape ed infinita (nonostante quest’ultima proprietà non sia nota con certezza), i cui volumi ospitano tutte le possibili combinazioni dei caratteri dell’alfabeto. Alcuni di questi conterranno certamente una descrizione dettagliata di tutti gli eventi della Storia, quelli già accaduti e quelli a venire. L’entusiasmo, generato dalla possibilità di trovare un testo che contenga tutta la Conoscenza e la Verità, fa sprofondare l’umanità nella loro incessante e spasmodica ricerca. Ricerca che si rivelerebbe vana fin dal principio, se gli uomini sapessero che la biblioteca è infinita, e che le combinazioni di simboli presenti nei volumi sono del tutto casuali.

Una possibile interpretazione sul simbolismo della Biblioteca è la seguente: abbeverarsi alla fonte di una verità descritta unicamente per il tramite del linguaggio è un’illusione, dal momento che, modificati determinati presupposti, è possibile dimostrare ogni cosa ed il suo opposto. L’universo – che è appunto incarnato dalla Biblioteca – è del tutto caotico, ed è possibile trasformarlo in “cosmo” unicamente per mezzo di un intelletto ordinatore infinitamente intelligente. Il compito di questo demiurgo sarebbe dunque quello di suggerire all’umanità questo misterioso ordine, in una maniera che possa risultare alla portata della sua comprensione.
E se così fosse, sarebbe possibile raggiungere questa verità per approssimazioni successive, in modo da risultare a noi intelligibile? O rimarrà necessario affidarsi all’intuizione di un salto di fede – inteso in senso lato – che mai potrà essere colmato dalla logica?
(In copertina: Diogene con la lanterna in cerca di un uomo onesto, J. H. W. Tischbein)