Roberto Pelo intervista Romeo Orlandi su Fabbrica e ring. Sei racconti dal Michigan.
Domanda - Fabbrica e ring è la tua terza prova di narrativa. Come le altre due (Il sorriso dei Khmer Rouge e Mal di Cina) è ambientata all’estero, nello specifico negli USA e, segnatamente, in Michigan. Ma questa volta non c’è nessun personaggio italiano (se non forse qualche italo-americano). Ci vuoi illustrare queste tue scelte?
Risposta - I sei racconti del libro si immergono in passaggi epocali della storia statunitense, così grandi da contagiare il resto del mondo. Basti pensare all’immigrazione, al New Deal, all’integrazione, fino alle grandi innovazioni della fabbrica fordista e dell’elettronica applicata. Nessun paese al mondo si presta meglio degli Stati Uniti – intrisi di dinamismo, successi e limiti – a illustrare i cambiamenti e le contraddizioni che inevitabilmente si generano. Ambientare i libri precedenti in Asia ha richiesto un impegno diverso: narrare una trasformazione – personale e politica – diversa da quella che abbiamo sperimentato. Lì, il cambiamento semina inquietudine tra di noi, perché dimostra che altri modelli e altri valori raggiungono risultati importanti. L’Italia mi sembra lontana dalla crescita e impoverita nella speranza, poco adatta dunque a far da retroterra a cambiamenti radicali. Sono più attratto dalla Storia che si compie. In sintesi: se intendo osservare, preferisco essere un fante di un plotone in marcia che un ufficiale di un battaglione che compie soltanto esercitazioni.
D. Il titolo suggerisce con immediatezza quali sono i palcoscenici su cui si muovono i protagonisti. Perché questa scelta?
R. La fabbrica e il ring simboleggiano due bastioni della società americana. La prima è l’espressione di una comunità organizzata che trae la sua legittimità dalla soddisfazione dei bisogni, dall’affrancamento dalla scarsità. È pienamente in linea con la ricerca della felicità sancita nella Dichiarazione d’Indipendenza. Ma la fabbrica è anche il luogo del contrasto, della divergenza di interessi, della distribuzione del valore creato. L’intera società – in misura pressoché totale prima del New Deal, in maniera ridotta dopo la Seconda guerra mondiale – ruota intorno alla produzione di merci, sempre migliori, di buona qualità, acquistabili da tutti. Il terzo racconto, quello ambientato a Flint, descrive la trasformazione – sociale prima ancora che politica – degli operai in middle class. In un contesto di amori, tradimenti, gelosie e lotte, due famiglie coronano il sogno americano: carriera al lavoro, mogli contente, figli all’Università. Per chi non si adegua a questi successi il destino riserva morte, umiliazioni, rimorsi.
D. Il ring come luogo deputato per la rappresentazione della lotta di classe, quindi. E il pugilato come metafora della vita, da una parte, e la fabbrica come metafora della coscienza di classe, dall’altra. È corretta questa interpretazione?
R La cultura del corpo completa nel libro la cultura operaia. I muscoli e la chiave inglese ribadiscono la propria identità, sono strumenti per la lotta e per la conquista. Mentre la fabbrica cerca sempre di carpire i segreti del mestiere agli operai, nella palestra o sul ring il pugile rimane solo, lotta contro un nemico che fa il suo stesso lavoro. Rimane l’emblema dell’individualismo, dell’uomo che spreme ogni sua energia, fino e oltre il confine tra la vita e la morte. Qui il mito non è la felicità ma la frontiera. Il leggendario Stalnley Ketchel, The Michigan Assassin, nel primo racconto lascia Gran Rapids a sedici anni per andare a combattere tra i minatori del Montana. Diventa Campione del Mondo e viene ucciso a 25 anni da un marito geloso. Un tipico eroe di una nazione giovane ed esuberante. Mentre in fabbrica si tende alla massificazione dei prodotti e delle funzioni, nei match sul quadrato si misurano a mani nude, senza mediazioni, il valore e la forza. L’interpretazione è dunque corretta.
D La storia – forse è meglio dire il tema di riflessione – si articola in sei racconti lunghi, (ognuno dei quali ha personaggi diversi), e copre un arco narrativo di più o meno un secolo. Al di là del contesto storico, che varia ovviamente da racconto a racconto, la costante è data dal rapporto dialettico luogo di produzione / luogo di promozione (omogeneità nella condizione di fabbrica [valore collettivo] vs esaltazione della forza-tecnica personale sul ring [valore individuale]). Quali sono le specificità che ciascun racconto porta a questo contrasto in termini valoriali?
R Cambia il contesto, ma alcuni valori di fondo permangono e alla fine trionfano. È uno dei punti centrali del libro. Gli Stati Uniti rappresentano la purezza e la vitalità del capitalismo. Si producono ingiustizie e ineguaglianze, ma queste, si scopre amaramente, sono necessarie, inevitabili. Esiste una convergenza di interessi, ma quando questi sono minacciati (dagli immigrati, dai diritti civili, dai sindacati) non esistono remore a reprimere senza rimorsi. I racconti raccontano storie semplici, di vita quotidiana, di carriere, di sentimenti, di corteggiamenti. Eppure la violenza avvolge la narrazione, in ogni trama esiste un omicidio. Anche l’ingegnere protagonista del racconto di Ann Arbor deve uccidere il suo io precedente prima di morire di Aids. Rispetto all’Europa, gli Stati Uniti offrono minori mediazioni e protezioni. Prevale la società civile, ma gli istinti e gli egoismi sono sempre in agguato. Ecco perché in fabbrica bisogna organizzarsi e in palestra allenarsi.
D Tu sei anche un esperto di globalizzazione e sappiamo bene che la globalizzazione- negli ultimi trent’anni – ha prodotto una costante svalutazione del valore “lavoro”: in soldoni, oggi ci sono – in occidente, ma progressivamente anche in oriente – sempre meno “operai” con mansioni sempre più ristette (e conseguenti salari) e con una totale mancanza di controllo del processo produttivo complessivo. Fabbrica e ring è un omaggio ai tempi che furono o la certificazione che il mondo è irreversibilmente cambiato?
R La seconda ipotesi, la certificazione, senza dubbio. Non esistono rimpianti per il rumore in fabbrica, i tempi della catena, i turni interminabili, i salari da sopravvivenza. Anche il tramonto della fabbrica fordista - con le mansioni ripetitive, l’alienazione, la scomparsa dell’orgoglio operaio - non suscita nostalgia. Soprattutto non ha condotto a quei cambiamenti che la sua dirompenza nel rapporto capitale-lavoro aveva lasciato immaginare. Eppure, anche oggi la fabbrica è lasciata alla creazione di valore economico, alla separazione tra produttori e proprietari, ad anni luce di distanza tra gli operai e le merci. Un argomento serpeggia nei racconti: il conflitto è propedeutico al progresso, al dinamismo sociale. La Grande Depressione ha prodotto il New Deal, il welfare, i sindacati organizzati. Il dopoguerra ha diffuso il benessere. Gli anni ’70 – lo illustra chiaramente il racconto di Detroit – hanno rappresentato l’ultimo tentativo di utilizzare la lotta di classe come motore dello sviluppo Non esistevamo spazi e volontà per cambiamenti radicali. Il paese si è adagiato sulla sua potenza declinante. Adesso è insidiato tecnologicamente dall’Asia e non vanta pugili che scaldano i cuori. Il racconto di Saginaw descrive la vittoria di Trump in una città ex operaia travolta dalla disoccupazione, disorientata dal lato oscuro della globalizzazione, capace di un omicidio per odio o per istinto.
D A chi parlano i tuoi racconti?
R Se fossi ancora giovane risponderei: alla classe operaia e ai pugili. Oggi vorrei rivolgermi a chi coltiva i dubbi e poi prende posizione, a chi è intellettualmente curioso, a chi è incline a pensare che gli Stati Uniti non siano una semplice proiezione europea. E poi a me stesso.