I was there, di Roberto Pelo


Immagine

Intervista a Roberto Pelo, autore della raccolta di racconti I was there (Montag Editore, 2023)

A Dov’eri?

R – Se ci atteniamo al titolo del racconto specifico, ero in Cina, a Pechino, dove (come si evince dalla cronaca dei fatti) ero arrivato nel marzo del 1989 e dove avrei vissuto, poi, per altri quattro anni. Ma I was there sta a significare, più in generale, che racconto storie di cui sono stato testimone – non in senso letterale, però. Testimone del percorso che i vari personaggi fanno, in situazioni che hanno uno spunto a volte solo parzialmente autobiografico (penso, oltre al racconto che porta lo stesso titolo della raccolta, a Anch’io ho ucciso Babbo Natale, Il ricordo non è peccato, Le strade di notte, La miniera di Tunya). Ecco se ci fermiamo a questi ultimi quattro racconti che ho appena indicato, ognuno nasce da un’esperienza (un ricordo, un fatto accaduto, una coincidenza) che mi ha riguardato. Ho dato davvero fuoco all’albero di Natale (quasi settant’anni fa!), e il contesto, la storia e quasi tutti i personaggi sono verosimili, ma di pura fantasia. E così, in tutta la storia di Don Mauro, il vero sta solo in quella domenica del 2 dicembre 1973, quando andai davvero in Centro, per comprare un libro, ma tutto il resto è invenzione: intessere una storia, seguire i personaggi, capirne le reazioni alle cose che accadono, vedere il loro destino compiersi. L’idea de La miniera di Tunya mi venne una quindicina di anni fa, visitando, per lavoro, una città della Siberia orientale: un miserabile agglomerato “urbano” in una distesa senza fine di neve, a venticinque gradi sottozero: non c’era una miniera di carbone, ma un giacimento di gas naturale. Un posto irreale, lontano da ogni logica. Il racconto l’ho scritto quindici anni dopo, più o meno.

A – Esiste la storia, in cui siamo tutti immersi, che ci accomuna e alimenta la memoria collettiva; poi c’è la storia di ognuno di noi, a cui la prima fa da sfondo, e che con questa si intreccia in modo del tutto personale. Anche questa domanda, in fondo, è semplice: quale di queste due storie ha più diritto alla “s” maiuscola?

R – Non ho una risposta univoca. Mi avvalgo di tre citazioni: la prima è di Alessandro Barbero, lo storico più famoso d’Italia. Cito a memoria, quindi i termini potrebbero non essere precisi, ma il senso è questo: Carlo Magno ha fatto la Storia – vincendo una battaglia, firmando un accordo, prendendo una decisione; ma il modo in cui si muoveva era affollato di gente (i suoi consiglieri, i servitori, i contadini che rifornivano la mensa reale, i soldati, i mercanti, i monaci ecc.) che agiva, pensava, interloquiva e creava – senza saperlo - il substrato fondamentale su cui, in ultima analisi (come diceva Engels), poggiavano le scelte “storiche” di Carlo Magno. La seconda è da Bertolt Brecht, una poesia: Domande di un lettore operaio (nella traduzione di Franco Fortini). Ne cito alcuni versi:

…………
*Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori?……….
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
……………
Una vittoria ogni pagina,
chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?

Quante vicende,
tante domande.*

L’ultima, da Trilussa:

La lumachella
della vanagloria,
ch’era strisciata sopra
un obbelisco
guardò la bava e disse:
-Già capisco
che lascerò un’impronta
nella Storia.

A – Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, hai deciso di condividere con il lettore una parte importante della tua vita. Le proteste e le repressioni di Piazza Tiananmen fanno cornice, anzi, da centro di gravità della narrazione. Tu, lì, c’eri. Ne emerge una testimonianza eccezionale: attraverso il tuo racconto è possibile completare il quadro attorno all’immagine del Rivoltoso sconosciuto, eroicamente inerme di fronte a una sfilza di carri armati. Cosa pensi, oggi, di quei giorni?

R – La scena dei carri armati e del solitario resistente – emblematica nella sua plastica tragicità – si è svolta a un centinaio di metri dal palazzo in cui si trovava il mio ufficio. Quei quattro, cinque mesi a cavallo dei “fatti di Tiananmen” sono stati sconvolgenti, sia a livello storico (con l’esse maiuscola), che a livello personale: un’esperienza unica e irripetibile. Ero andato in Cina perché lo volevo: mi ero attrezzato, studiando (la mia tesi di laurea era stata sul modello di sviluppo cinese dal 1950 in avanti; avevo studiato lingua e cultura cinese; ero andato in Cina nel 1978) e impegnandomi in associazioni di amicizia con la Cina. C’erano limiti evidenti di sviluppo e deficit enormi di democrazia in Cina (ma in Asia, allora, il concetto di democrazia era piuttosto vago, quasi ovunque, compreso il già sviluppato Giappone), tuttavia era ammirevole come un popolo schiacciato ancora dal feudalesimo stesse cercando una propria via allo sviluppo. Tiananmen ha segnato la fine di tutto questo processo e ha messo in mostra la ferocia e la violenza di una oligarchia che non tollerava discussioni. Per me è stato il punto di svolta, di non ritorno. Il segnale storico che ha svelato, in modo definitivo, “di che lacrime grondi e di che sangue” il modello del cosiddetto socialismo realizzato è stato la caduta del muro di Berlino. Ma spesso dimentichiamo che i fatti di Pechino sono accaduti cinque mesi prima dei fatti tedeschi. Dopo Tiananmen, per me, nulla è stato più come prima. Vorrei fare un’ultima riflessione su questo racconto, perché I was there è sì autobiografico, ma ha pur sempre l’impianto narrativo degli altri racconti. A me interessa il destino dei personaggi. Il racconto è articolato in tre parti. La terza è l’analisi, nel tempo, del destino di tutti i personaggi che appaiono nella storia: l’amico-collega, il funzionario di partito, il top leader, il direttore generale, il giornalista e via e via. Tutto si sbriciola, diventa inconsistente. Quello che è stato “storia” diviene solo ricordo.

A – Il racconto che più mi è rimasto impresso è quello di chiusura: Il treno. In un luogo che assomiglia al vecchio west, un gruppo di condannati a morte riesce rocambolescamente a sfuggire alla propria esecuzione. Presto, però, l’entusiasmo per aver salvato la pelle deve fare i conti con la necessità di difendersi dalle insidie di un’esistenza da fuggiaschi. I protagonisti prendono possesso di un vecchio treno abbandonato, facendone il proprio baluardo e costituendo una piccola comunità. Nel leggerlo, una domanda mi è sorta spontanea: siamo tutti fuggiaschi?

R – Siamo “fuggiaschi” se siamo “disertori”. Cerco di elaborare e di spiegare le virgolette. I sette che, in fuga, s’impossessano di un treno, imparano a collaborare, definiscono intimamente quale sarà il loro obbiettivo finale, partendo – in retromarcia – alla ricerca della libertà perduta, sono fuggiaschi perché disertori (e in quanto tali condannati a morte). Non solo: sono in sette, ma cinque appartengono a un esercito e due (i ragazzi) ad un altro, perché è una guerra civile. Stanno riavvolgendo il film della loro vita, imparando a convivere e a rispettarsi. I loro parametri esistenziali sono cambiati radicalmente. Fuor di metafora e per rispondere alla tua domanda: siamo fuggiaschi? Sì, lo siamo quando abbiamo tradito un amore, ferito un sentimento, venduto la nostra dignità, perduto la nostra coerenza, abdicato ad altri principi. O trovato una nuova chiave di lettura della nostra vita. In questi casi siamo dei disertori: rinneghiamo ciò che amavamo o che avremmo dovuto amare di più. Oppure abbiamo preso coscienza che quel che c’era prima non vale più. Non tutti affrontiamo le scelte allo stesso modo: c’è chi, della coerenza ad ogni costo, ne fa un modello di vita; chi inciampa qualche volta; chi, invece, si barcamena e crede di rimanere, più o meno, in sella. Però, sostanzialmente, siamo tutti fuggiaschi.
Almeno un po’.


Foto dell'autore

Roberto Pelo nasce a Roma, nel 1951. Si laurea in Economia a Siena, con successive specializzazioni a Macao, Hong Kong e Roma. È autore di numerosi saggi e studi di economia internazionale. Nel 2009 ha pubblicato la prima raccolta di poesie (In cerca di altri autunni, Seneca Edizioni – premiata al Martinsicuro Book Festival 2011), cui sono seguiti i Romanzi Koban (Ed. Albatros, 2010 – Premio Speciale della Giuria al LIV San Domenichino, 2013, e V Albero Andronico, 2012) e Un fatto di cronaca (Edizioni Croce, 2015), la raccolta di poesie Briciole di tempo (Aletti Editore, 2017) e il romanzo Dopo il 6 febbraio (Ed. Youcanprint, 2022). Singole poesie, raccolte inedite e sue traduzioni da poeti stranieri sono state premiate in diversi premi letterari. Sue poesie sono apparse in antologie, siti web e riviste.

Per trapesiepoesie.it cura la rubrica di poesia Per incerti versi.