La chiesa di San Pietro, tre o quattro case, a pochi passi il cimitero. A pensarci bene, nel breve tratto di terra che circonda la chiesa di Faedo, ci sono più morti che vivi. Eppure la vita non è spenta, né morente: solo sopita. Passare di lì per caso, non in un qualsiasi giorno di festa, ma durante la sagra, la borgata traboccante automobili, persone, voci umane, versi di animali, campane. Scoprirsi un po’ meno soli nel dilagante attimo di un fermento, in quel gorgoglio che di religioso conserva l’umano attaccamento alla comunità e al passato, la gratitudine di avere qualcosa in comune da potersi raccontare.
La vita non muore se non muoiono le parole: alla sagra di San Pietro, a Faedo, nello stomaco dei Colli Euganei, una saletta illuminata a neon accoglie una mostra di poesie. Accanto ai bagni. Subito penso che nemmeno questo è affidato al caso, che la grammatica degli eventi si avvale di espedienti insospettabili, del tutto differenti da quelli del linguaggio scritto e parlato – seppur analoghi. Così, l’inanimato il minerale l’artificiale si ritrovano a dialogare con noi, ci raccontano una mitologia alla quale non possiamo non credere, poiché da noi stessi concepita.
Lucia è una signora dall’aspetto rassicurante, pacato, di chi conosce la propria fiamma e la nutre, la custodisce, a sprazzi la rivela. Ci vuole equilibrismo, scrupolosa spregiudicatezza, mitezza e cieco fervore, per coltivare parole, fra queste campagne. Mi piace pensare di averle rivolto le domande che seguono in modo estemporaneo, mosso anch’io da un simile, quieto ardore:
La domanda più semplice, e insieme la più difficile: chi o cosa ti ha portata a far poesia?
Inizialmente, credo, la solitudine, era un foglio bianco essa stessa, di silenzio. L’ho sperimentata molto presto; eppure, e mi rendo conto che questo fatto può sembrare paradossale, mi faceva ‘compagnia’. Nel senso che lo stato di solitudine mi portava, come per un invito, a manifestarmi dentro un mondo ideale tutto mio. In seguito, già alle elementari le immagini, amabilmente colorate, soavi e deliziose, poste a fianco dei testi poetici nel libro di lettura hanno rappresentato quel mondo alternativo perfetto, meraviglioso e incantato che è ancora oggi dentro di me.
Poi, crescendo, sostanzialmente sola, quantunque non mi mancassero e mi fossero oltremodo gradite le occasioni di gioco in giardino con altri bambini, ho iniziato a innamorarmi del potere magico della parola. Ho realizzato che i sinonimi in realtà non esistono, che ciascuna parola ha una sua propria storia e verità, un etimo originario, spesso stratificato nel tempo dall’uso che genti diverse ne fecero, che il suo significato può mutare, si può svuotare o può trasformarsi, proprio come per una incredibile magia. Presto il richiamo seduttivo della lunghezza libera dei versi, l’evocazione inesauribile che ciascuna sillaba porta con sé, il potere assoluto degli accenti, la malia del ritmo e delle rime hanno completato l’attrattiva del ‘quadro’.
Quando, infine, ho capito che la poesia è prima di tutto un ‘modo’ e poi una creazione dallo slancio inconsumabile, non c’è stato più alcun dubbio per me che quella fosse una forma espressiva di apertura al mondo privilegiata, in grado di comunicare con assoluta sincerità, bellezza, meraviglia, osservazione personale, diversità, perfino indignazione e rabbia; ho deciso per questo di dedicare le energie, la mia passione e lo studio personale a questa branca.
Fra i tanti, alcuni versi di Ungaretti riecheggiano spesso dentro di me: “Questa è la Senna/e in quel suo torbido/mi sono rimescolato/e mi sono conosciuto”. La poesia può divenire uno strumento di esplorazione dei nostri “fondali”?
Fra le numerose prerogative della parola e dopo il bisogno primario di informare e di condividere, coesiste nel suo essere strumento aperto e vivo il potenziale di far riflettere, indignare, di confortare e di commuovere. Ma, e questo è basilare, ci sono anche la possibilità di stupire e perfino il gioco: vero, la parola ti permette di divertirti. Faccenda serissima, dato che in questo modo aiuta a crescere senza darne il peso. Generando metafore, origina in chi scrive e poi in chi legge scenari alternativi, esercita il pensiero a non irrigidirsi nella banalità e aiuta la formazione dell’identità personale, favorendo l’introspezione. Il ritmo avvicina alla musica, crea una risposta emotiva armoniosa per il cervello che si rende disponibile ad accogliere, facendogliene spazio, il pensiero complesso e profondo.
Come in un rituale di simulazione, il ritmo e le metafore, quasi facendoci sentire riparati e al sicuro dietro uno scudo di protezione inaspettato, ci faranno meglio comprendere dentro di noi le nostre velate ma essenziali verità interiori. Infatti, proprio perché non esiste un significato univoco dei versi, ma c’è e varia l’‘interpretazione’ di chi legge, quanto è scritto serve a rifletterci sopra e a trovare significati personali, a conoscere meglio se stessi. La poesia è tante cose, ma prima che comunicazione è conoscenza di sé, più che trasmettere un’emozione, vuole farcela nitidamente ricordare il più a lungo possibile e tal quale. La poesia è tale perché non si logora, la memoria ne è attratta e il lettore desidera farla sua.
“Restare indietro è non aver risposto alla chiamata/rammarico è trovare che si è smarrita una parte di sé”. Da questo passaggio emerge una poetica attenta alla riflessione semantica, al chiarimento personale di termini comuni, talora dai connotati sfumati. Ritieni che la poesia si muova nelle zone d’ombra – o di luce – delle parole e dei concetti di uso comune, arricchendoli, trasformandoli, facendone materia viva e pulsante?
La poesia è un testo impegnativo, l’oscurità è dovuta alla complessità dei contenuti da esprimere, è una forma che cerca e poi esprime significati nuovi, spesso con modi anticonvenzionali, e, molto, sfruttando l’ambiguità. La lingua è inesauribile perché, come detto, muta di continuo. E ogni volta che viene letta il significato della poesia si rinnova, dato che chi legge si comporta come un altro, diverso poeta. Direi che si tratta di una risposta naturale positiva dell’altro, indipendentemente dalla sua preparazione culturale. Chi legge entra in un mondo a parte, un vero altrove, e talora si commuove. Vive più intensamente e ne è felice. La complicazione, la difficoltà del testo fa reagire intimamente la memoria autobiografica di chi legge, che si rapporta subito ai suoi propri ricordi. Forse tutto quello che serve è una capacità un po’ più spiccata a comprendere i sentimenti, le emozioni e le difficoltà di tutti, a fare armonizzare i sogni con la realtà, più che una particolare sensibilità per la parola.
In molte tue poesie si trovano spunti di riflessione esistenziale. Per esempio, in Delizie: “Siamo qui per questo/per inalberare/vessilli ridenti/al vento d’essere”. Nostro compito, o nostro scopo, è di soffiare sulle braci del bene, del desiderio di vita, di non permettere che il dolore le estingua. In che misura la poesia può costituire una ‘fabbrica di senso’ per le nostre vite?
Ricordavo poc’anzi l’inesauribilità di senso, di significato della poesia. E se è vero, come credo, che è poeta anche chi legge ed essendo i lettori potenzialmente infiniti… Va da sé che la ‘fabbrica di senso’ non chiuderà. La scrittura evocativa, descrittiva, emotiva crea empatia. È un’interpretazione originale e condivisibile del reale e ci si può fare stare dentro tutto: il tempo, il proprio vissuto, l’altrui, mondi alternativi, manifesta il passato, il presente e, probabilmente, il futuro, trasformandoli in qualcosa di usufruibile, fa cantare e rende preziosa anche la banale normalità.
Le rime sono come gesti affettuosi che cullano e blandiscono e gli umani sono pieni di passione e sono anche le emozioni procurate dalla bellezza, dalla gioia di vivere e di condividere e la poesia stessa racchiusa in ogni cosa a tenerci in vita, talora perfino a permetterci di sopravvivere al dolore.
Per concludere: si avverte ancora oggi un bisogno – a tratti un’urgenza – di poesia, pur vivendo realtà spesso frenetiche, tumultuose, prosaiche. Siamo in grado di riconoscere questa necessità, di assecondarla e di nutrirla a dovere?
Poiché ci sarà sempre qualcosa da dire o da raccontare, da contestare o da amare, sì, la poesia ci sarà sempre. E sì, saremo in grado di assecondare e di nutrire questa necessità, perché il bisogno di dire, di capire, di ricordare, di intonare canti di gioia e di tristezza, infine il bisogno di amare e di essere amati, è in ciascuno di noi. In un’epoca in cui le parole si banalizzano, si svuotano di significato, di forza, la poesia dovrebbe essere un mezzo efficace per contrastare l’impoverimento della comunicazione e la pigrizia che ne consegue, perché la ricerca del linguaggio adeguato a ridire l’evento può riuscire davvero ad esprimere la varietà, la complessità, le contraddizioni, gli orrori e la bellezza del mondo.
La necessità della poesia è nella sua gratuità generosa e rigenerante, nel senso che la poesia vive e funziona se si resta concentrati nella potenzialità espressiva della sua stessa formula enunciata. È incanto e magia.
Anche ciascun sentimento possiede un suo proprio talento e capacità di comprendere e di imparare, per questo quando ci rendiamo partecipi, leggendo, dei sentimenti degli altri, accresciamo la nostra personale consapevolezza. Una situazione affettiva del poeta diventa una situazione affettiva anche nostra, quando arriva a colpirci.
Le facoltà intuitive, attraverso le figure e i traslati, interagiscono veloci, arricchendo la nostra mente di stupore, che è il sapore dei giorni, così come quel tocco connotativo attribuito alle parole e alle forme particolari inventate dal poeta mettono a disposizione dell’altro la fresca vivacità dell’esistere, tenendo lontano ciò che di generico, indeterminato e vano farebbe sì che vita autentica non fosse.
Forse non era solo immaginazione, come poco fa richiamavo alla memoria, che silenzio e solitudine fossero la pagina bianca da cui emergevano parole.