Un bambino crocifisso ad una porta per sventare un esproprio da parte della polizia. Un tale – il solito Benjamin Malaussène – che vive con la sua straripante famiglia allargata nello Zèbre, l’ultimo teatro ancora in piedi a Belleville, uno dei quartieri più magici e suggestivi di una delle città più magiche e suggestive al mondo, che di professione fa il capro espiatorio, ma che adesso si è messo congedo in attesa di diventare padre, ritrovandosi ben presto vittima di un complotto su larga scala.
Il bambino era inchiodato alla porta come un uccello del malaugurio. I suoi occhi plenilunio erano quelli di una civetta. Loro erano sette e salivano le scale quattro a quattro. Naturalmente ignoravano che questa volta gli avevano inchiodato un moccioso alla porta.
Tutti gli indizi di colpevolezza che convergono sul protagonista con un’implacabilità tale da non poter essere altro che il frutto della sottile macchinazione del caso.
La cosiddetta giustizia che, nella persona del rampante e glaciale commissario Legendre – “genero”, in francese –, per l’appunto il genero del precedente commissario appena pensionato, si lancia all’inseguimento del malcapitato Malaussène, geloso del suo vivere rocambolesco e perciò bramoso di irreggimentarlo.
Una giudice istruttrice che in quanto “madre” mostra compassione per il suo gesto vendicativo, anzi, lo giustifica elevandolo al rango di movente (cosa c’è di peggio di un movente, per un innocente?).
“Sono mamma, signor Malaussène.”
Cosa che le permette di capire il mio atto. (E quindi di non dubitarne!)
Dal canto mio, ci ho messo un bel po’ per capire come funzionava quella testa. Quando mi sono reso conto che palpitava come un cuore, ho capito di essere spacciato.
Un cuore di mamma.
Uno psicopatico collezionista di raffinatissimi tatuaggi su pelle umana (già) che fa trucidare una sfilza di prostitute con lo scopo di strappar loro le cuoia quasi fossero degli affreschi.
Una serie sterminata (in tutti i sensi) di personaggi variopinti, di colpi di scena, di avvenimenti sì oltre il confine dell’assurdo, ma congegnati con una tale coerenza da apparire verosimili quanto la realtà stessa. E, in mezzo a tutto questo, le incursioni all’interno della tribù Malaussène, nella sottile intercapedine tra finzione e realtà nella quale i suoi membri amano sguazzare fino ai gomiti (vale la pena di ricordare che vivono in un teatro!). Decine, forse centinaia di personaggi descritti minuziosamente, tutti più o meno necessari al dipanarsi e al risolversi della trama nell’immancabile colpo di scena finale. I vecchi Job e Liesl, talmente in fissa con il cinema da aver dedicato la loro vita alla realizzazione del Film unico, una pellicola che prevede una sola proiezione da effettuarsi dopo la loro morte, alla presenza di pochissimi; il loro nipote, Barnabè, che per contrappasso è la negazione del cinematografo, di tutto ciò che è impressione definitiva, mostra, ostentazione: da illusionista, dedica la propria esistenza a far sparire le cose (in un eccesso di estro, persino lo Zèbre, con conseguenze nefaste). Poi, innumerevoli altre suggestioni fantasiose che riescono persino nell’ardua impresa di distrarre il lettore da una trama di cui è quasi impossibile tenere le fila.
Per 444 pagine, il genio di Pennac attinge senza sosta al barile degli intrecci (senza peraltro intravedere mai il fondo), governando con disinvoltura un pantagruelico apparato narrativo.
Al di là di tutto, o meglio, proprio grazie a tutto questo, Il signor Malaussène rappresenta un viaggio commovente, divertente, profondo, drammatico, spensierato, ironico, toccante, poetico, allucinatorio, scanzonato e così via, all’interno delle vite di un mucchio di persone straordinariamente normali: le quali, nonostante la notorietà a cui sembrano costrette dal caso, e a dispetto della loro naturale propensione a cacciarsi nei guai, non desiderano che la pace del loro vivere in tribù. Una tribù intesa come congerie di persone accomunate da parentele di sangue, d’amicizia, di fratellanza, di simpatia. Una strampalata tribù dove sempre luccica, e nemmeno troppo sottotraccia, la favilla inestinguibile della speranza.