Se anche avesse scritto solamente questa ode (Odi, Libro I, 11, 8), che si chiude con queste due magiche parole, Quinto Orazio Flacco sarebbe comunque passato alla Storia. Ma il posto nell’Olimpo dei poeti di ogni epoca e lingua, come sappiamo, se l’è guadagnato con uno stuolo di opere e di versi luminosi.
Eppure, se Orazio è – ancor oggi e quotidianamente – sulla bocca di molti, lo deve a questa locuzione, usata frequentemente, se non spesso, a sproposito. Sarebbe bello poter verificare con un’indagine, in questi tempi di pandemie, di guerre senza fine, di migrazioni oceaniche, come intende – chi la conosce – l’espressione carpe diem, rapportata ai giorni che viviamo. È facile supporre che una larga fetta la interpreti come la necessità – spirituale e biologica – di prendere, subito e tutto, il possibile, il meglio della vita, con buona pace di virus, bombe e barconi affondati. E una parte, invece, che la interpreta come predisposizione ad accettare quello che di buono la vita ci concede nonostante virus, bombe e barconi affondati.
I secondi sono più vicini al vero, ma i primi sono maggioranza.
Perché carpe diem possiamo tradurlo in una infinità di modi (cogli l’attimo, afferra il giorno, vivi il presente ecc.) – tutti corretti o tendenzialmente corretti – ma è, in sé, intraducibile: l’arcano che si racchiude in questa locuzione sta nella sublimazione quasi perfetta di una intera e complessa filosofia di vita. Il figlio d’un liberto arricchito – deluso dal naufragio dei suoi ideali giovanili, anti-tirannici e repubblicani; disgustato e terrorizzato dall’orrore delle guerre civili; privato delle sue proprietà – rinunzia ai grandi orizzonti e si rifugia in un epicureismo agreste e nella poesia. E accetta quel che la vita, che poteva essere e non è stata, gli offre, scontando, magari, anche un’esistenza vestita di dorata mediocrità.
Il Poeta e la sua amica passano una giornata invernale in casa, mentre fuori il freddo e le intemperie si abbattono sul mondo: il tepore della casa, i trastulli per passare tempo, la sicurezza della quotidianità, una coppa di vino fanno della vita un giardino vivibile sempre, anche nelle avversità. Leggendola con gli occhi scaltri, di chi come noi – lettori del terzo millennio – ha avuto poi nei secoli l’opportunità di incontrare altri poeti, l’ode ci appare pervasa da un afflato crepuscolare, da cui emergono – se non direttamente, ma per associazione di immagini – le buone cose (anche se di pessimo gusto) di Gozzano, o la siepe pascoliana, o – infine, ma non ultima – la certezza in positivo di ciò che non siamo e ciò che non vogliamo di montaliana memoria.
La vita è breve, non sprechiamola.
Carpe diem *
Non tentare di capire (nefasto
è sapere) qual è il fine che il fato
a me e a te, Leuconoe, ha assegnato
e nelle stelle i segni non cercare.
Qualunque cosa accada, quanto meglio
in silenzio la vita sopportare:
siano ancor molti o sia questo l’estremo
inverno che ora ci viene concesso,
lo stesso che nella fredda risacca
sugli scogli fiacca il mare Tirreno.
Sii savia, fai decantare il vino,
e ti sia cauta in cuore la speranza,
perché troppo breve è il nostro cammino.
Mentre parlo, corre, amara, l’età.
Non confidare in quello che verrà:
carpe diem.
*Dalla Sezione Traduzioni e versioni in R. Pelo – Briciole di tempo – Aletti Editore, 2017