La prima assenza di luce: ecco, la prima notte al mondo. Senza, il giorno non avrebbe un nome, e dunque non sarebbe affatto. Alcuni binomi – vita/morte, luce/buio, caldo/gelo – tendono le corde sulle quali Luigi Finucci compone i suoi canti. Avventurandosi fra le pagine, si oscilla fra lampi di vita e guaiti di disperazione, a tratti (quasi) di disfatta.
La raccolta è divisa in quattro sezioni: nella prima – Ad una distanza che non comprendo – si vede tratteggiare un cosmo dalle sembianze umane: di certo non per antropomorfizzare gli astri, quanto, piuttosto, per espandere i confini del mondo fino a ricomprendere ciò che di più prossimo e remoto possediamo, il patrimonio più familiare sin dagli albori del mondo: le stelle e i pianeti. Emerge, da questa prima sezione, una forte fascinazione dell’autore per l’astronomia, l’astrofisica, la cosmologia.
Recita la prima lirica:
Atomi si muovono, nello spazio imitando
un perpetuo sodalizio.
Il caso vorrà, nell’istante
imprecisato, che si formi
un assioma complesso.
Vita. Senza bisogno alcuno
di definizione.
Più che un tentativo di dettare un ordine alla natura dei sentimenti, delle relazioni, sembra che lo scopo dell’autore sia di operare una trasformazione – come nelle stelle si trasmutano gli elementi che daranno poi origine ai nostri sistemi planetari (La verità/ è che la metà degli atomi/ del mio corpo è prodotta fuori/ da questa galassia) – una trasformazione, dicevamo, del rapporto fra gli astri e noi umani. Si instaura una relazione fra corpi sì distanti, ma che possono vedersi. “Assiderarsi” diviene così un associarsi ai corpi celesti, non subire il loro nefasto influsso (questo il senso del latino sideratus), né soccombere all’implacabile gelo della notte che essi recano.
Leggiamo ancora:
L’universo è solitudine
come la sorte umana.
L’ espandersi è una pretesa
vacua: la linea procede
lenta.
La “compassione” della solitudine, d’altronde, è la più intensa esperienza di intimità.
Il primo capitolo si lega a quello conclusivo, il quale da il nome alla raccolta.
La prima notte al mondo è adesso la lunga notte invernale del polo Nord. Qui, il costruirsi dimora diventa religione, un’impresa che necessita di vaticini e di rituali, alla stregua di un’azione di guerra, nell’unico luogo in cui questa non può esistere:
I primi nomadi del Nord
prima di accamparsi,
sceglievano i blocchi di ghiaccio
tra le visioni. Ogni storia
è affascinante se alla fine
hai le lacrime agli occhi.
La seconda sezione - Porta d’accesso ad un mondo primordiale - si fa più oscura, preludio alla discesa nella sfera più intima dell’autore, che avrà più completo compimento nella terza parte. In un’Africa torrida, fra Etiopia e Marocco, si trova la porta per un mondo ulteriore, primigenio o forse postremo:
Così lontano da casa
c’è una percezione ampia
le catene si rompono
con l’educazione familiare.
Porta d’accesso ad un mondo
primordiale.
La ricerca di questo arcano accesso è senza dubbio un altro dei fili conduttori di tutto il testo. L’autore annota – con un linguaggio spesso oscuro, di non semplice lettura – i dettagli di ogni possibile evasione, quasi volesse scongiurarne l’oblio. In questo, sembra di sentire l’esortazione (anzi, l’ordine!) di Montale: “Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe[…] Va’, per te l’ho pregato”.
Il titolo della terza sezione – Ho assistito a scene da manicomio – parla da sé. Adesso i toni si fanno più cupi, si apre una riflessione su colpe e contraddizioni del genere umano. Il tentativo di condurlo faccia a faccia con le proprie responsabilità emerge da una delle liriche:
Sulla terra c’è una resistenza
al sedersi, come se l’invito
delle forze dell’universo
fosse accolto male.
[…]
C’era un momento durante
il sentiero dove la scelta
era chiara.
Il “manicomio” che viene tratteggiato è fatto di morti che si credono vivi (-Tutti morti. Come a Dresda.-[…] Tutti morti. Dal giorno/ in cui siamo nati.), e di vivi che vorrebbero esser morti (Il coltello affonda, sussurra/ l’ultimo scongiuro della vita.). La nostalgia per un amore concluso, o più in generale per una tenerezza mancata, l’impossibilità di giungere a una piena e completa compenetrazione con l’altro, emerge da alcuni versi:
Una cosa è certa, abbiamo provato
a salire sui rami dell’amore.
Caduti, le ossa si sono frantumate con la realtà.
Eppure le mani hanno trovato il modo di sfiorarsi, le mani.
Dice Lucia Gaddo Zanovello, poetessa padovana: “Siamo qui per questo/ per inalberare/ vessilli ridenti/al vento d’essere”. Dunque, poesia rimane un canto di gioia, quand’anche le sue note siano urli di dolore. Così, a margine della propria opera, nell’ultima poesia l’autore svela una possibile strada per la “guarigione”, la conclusione di ogni possibile divagazione poetica:
Tutte le poesie del mondo portano qui.
[…]
Un uomo
costruisce la sua dimora
e se ne prende cura.
Chiamatela se volete,
guarigione.