È innegabile, oltre che inevitabile, che certa letteratura di prim’ordine venga in parte trascurata, relegata ai margini di quella ufficiale, in alcuni casi tassativa – si legga: che va letta per obbligo morale o scolastico – in altri casi semplicemente ritenuta necessaria per la formazione di qualunque individuo che abbia pretese di persona colta (non parliamo qui di letterati). Come nessuno si sognerebbe di mettere in discussione la necessità di leggere Calvino, Moravia, Pirandello o Svevo, – e tutti, infatti, li abbiamo letti, seppur a volte inconsapevolmente – così è altrettanto naturale veder fare spallucce alla menzione di autori quali Silone o Tabucchi. Naturale perché abituale: ma il fatto stupirebbe chiunque abbia avuto l’occasione di leggere certe loro opere.
“Figlio, disse la vecchia, ascolta, così non può andare, non puoi vivere da due parti, dalla parte della realtà e dalla parte del sogno, così ti vengono le allucinazioni, sei come un sonnambulo che attraversa un paesaggio a braccia tese e tutto quello che tocchi entra a far parte del tuo sogno…”
Antonio Tabucchi, Requiem
Citiamo Requiem (1991), di Antonio Tabucchi, romanzo della sua maturità personale e letteraria, viaggio onirico-lirico-allucinatorio, orazione funebre alle grandi e piccole anime che ne hanno popolato l’esistenza. Nel casuale rimbalzare da un personaggio all’altro, la narrazione procede a zig-zag, in un crescendo verso l’incontro più significativo della sua vita: quello con il poeta portoghese Fernando Pessoa. In questo incerto peregrinare di miraggio in miraggio, si odono eco di un altro grande romanzo del Novecento: Conversazione in Sicilia, di Elio Vittorini. Se Requiem – come altre opere di Tabucchi – è ambientato a Lisbona, sua città di adozione e di elezione, Silvestro invece fa ritorno dopo quindici anni nella sua ormai lontantissima Sicilia, con il pretesto dell’onomastico della madre. Nel caso di Requiem, è il sogno stesso a farsi espediente narrativo, occasione per mettersi a nudo senza timore di apparire impudente (i sognanti, si sa, sono ben più liberi dei semplici viventi).
Poi c’è Piazza d’Italia (1973), primo romanzo di Tabucchi, racconto favoleggiante e quasi magico, certamente ispirato, almeno in parte, al capolavoro di Garcia Marquez. Epopea di una famiglia qualunque, – ma non come tutte – si svolge lungo i decenni che portano dall’unità d’Italia alla nascita della repubblica. La “grande” storia d’Italia è qui l’artificio letterario per narrare le vite dei personaggi, tanto fieramente sprofondati nel proprio anonimato da dover attingere ai nomi altisonanti partoriti dalla Storia, “Garibaldo”, “Anita”, o persino agli scenari delle loro gesta: “Quarto” e “Volturno”. In una simile cornice, il paese che accoglie le loro insignificanti, eroiche vicende non può che chiamarsi “Borgo”. L’autore, con questa cronaca, riesce nello scopo, tutt’altro che vano, di rimediare almeno un poco ai soprusi della Storia.
“In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch’è finito.”
Ignazio Silone, Fontamara
I medesimi soprusi che vengono delineati con amara (appunto) ironia in Fontamara di Ignazio Silone, – anche questa un’opera prima – forse l’unico suo romanzo ad aver trovato riscontro presso il grande pubblico. Protagonista dell’opera è la beffa, con tante e tali sfaccettature da apparire diabolica. I contadini, i braccianti, i piccoli allevatori – in una parola, i “cafoni” – della Marsica, turlupinati in ogni maniera dal (pre)potente di turno, si mantengono in vita aggrappandosi alla speranza, tramite la quale riescono appena a librarsi, come farfalle, di disgrazia in disgrazia: perché naturalmente ogni speranza si rivela vana, frustrata dalla bramosia esercitata con crudele ironia dai notabili e dai potenti del luogo.
Esistono tuttavia altre opere di Silone, meno note al grande pubblico, che ci preme segnalare: Il seme sotto la neve, per fare un esempio. A mezza via fra il romanzo e lo scritto teatrale, con un uso massiccio di discorso diretto, può dirsi il manifesto del pensiero politico-religioso dell’autore. I suoi romanzi – non solo i primi – sono il luogo in cui egli elabora e incanala le più dolorose fratture ideologico-spirituali della sua vita: quella con il Partito Comunista, nello specifico con lo stalinismo, e quella con la Chiesa (diceva di sé: “Sono un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa”).
Nei propri romanzi riesce a costruire una narrazione che integra i suoi valori cristiani a quelli socialisti, dando origine a una militanza singolare e solitaria, che gli guadagnerà il sospetto di entrambi gli schieramenti. D’altra parte, il suo ostinato rifiuto per la coercizione e l’uniformazione del pensiero, tipici delle sovrastrutture umane – inevitabilmente corrotte dall’indottrinamento e dall’educazione ideologica – non poteva che porlo in disparte rispetto alle folte schiere degli allineati.
“Amo il popolo, ma non d’un amore cieco. Anch’io vengo dal popolo e lo conosco bene. Esso può essere facilmente ingannato, eccitato, illuso […] Nessuno schiamazzo di folla deve mai prevalere sulla voce della coscienza.”
Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano
E il tema della corruzione legata alla rinuncia ai propri principi per un “bene superiore”, partito o religione che sia, accompagnerà sempre la sua produzione letteraria, culminando nella sua ultima opera, dal taglio puramente teatrale: L’avventura di un povero cristiano (1968). Il “povero cristiano” è Pietro Angelerio da Morrone, monaco molisano ed eremita nella Maiella, in Abruzzo, certamente più noto col nome pontificale di Celestino V. Il papa che “fece per viltà il gran rifiuto” dantesco diviene l’emblema di chi, pur di non piegarsi alle imposizioni di un potere che, invece di magnificare lo spirito, lo fiacca e lo umilia, rinuncia non già alle sue lusinghe – che in ogni caso non erano in grado di attecchire sul suo spirito – quanto al suo insensato e gravoso carico.